sabato 2 febbraio 2019

La buona vecchia Coppa Davis

E' grazie alla complicità  della bronchite che, con annesso 39 di febbre, mi ha bloccato a casa con poche cose da fare e senza neanche la possibilità di... uscire il cane, se ho avuto la possibilità di riscoprire il fascino unico e insuperabile della buona vecchia Coppa Davis.

Una competizione che avevo abbandonato tanti anni fa, insieme un po' con tutto il tennis (che rimane il mio secondo sport dopo la pallavolo), quando l'era della tv a pagamento sottrasse molti eventi sportivi alla mia vista.
Forse il mio ultimo ricordo legato alla Davis coincide con l'ultimo momento di luce, prima di un lunghissimo buio, che  questa competizione ha avuto nel nostro paese.




Questo momento incredibilmente sfortunato, che comportò la perdita del turno, ha sancito la fine della partecipazione dell'Italia ai massimi livelli della Coppa Davis per tantissimi anni.
Era il 1998. Nel 2000 scivolammo fuori dal World Group, e ci siamo rientrati solo nel 2012, raggiungendo le semifinali nel 2014.
Ma ormai era un altro tennis, è un altro tennis. Ormai è un'altra Coppa Davis.
Il tennis è diventato uno sport estremamente professionistico e rigidamente individualista. Il circuito ATP impone ritmi che non si sposano con i tempi allungati di una competizione che individualista non è (in quanto gara a squadre), e che faceva della ostinata e anti-televisiva lunghezza la propria bandiera (incontri al meglio delle 5 partite, tie-break - accettato obtorto collo - ma non nell'ultimo set, lunga serie di turni da disputare in giro per il mondo, con quell'affascinante sistema del metodo della scelta del campo).
Tutte cose da preistoria.
Tutte cose che non potevano durare - malgrado la difesa con le unghie e coi denti - nell'era della televisione e dei tempi da questa imposti.
Il tennis, come la pallavolo, ha dovuto capitolare.
E se per la pallavolo a fare le spese dell'era della velocità è stato tutto lo sport (che è stato massacrato in modo barbaro, stravolgendo il meccanismo dei punteggi, ammettendo colpi di piede, ricezioni ributtanti in palleggio e quant'altro), per il tennis le spese maggiori le ha fatte proprio la Coppa Davis che, via via, lentamente e tristemente, ha perso importanza, diventando un fastidio per i giocatori.
Perso l'appeal televisivo, ecco che la manifestazione è caduta in un oblio non solo a livello italiano - dovuto alla scarsità di risultati - ma globale.

Alla fine questo oblio ha portato l'ITF, l'organizzazione che cura la Coppa Davis, a dover operare una scelta obbligata: cambiare per non morire definitivamente.
E - da quest'anno - la formula della Coppa Davis è stata profondamente cambiata. E', adesso, molto più simile ad una kermesse che ad un evento sportivo capace di creare pathos.
Ma il mondo della velocità questo vuole, e noi vecchie cariatidi dello sport, che ancora ricordiamo tempi ormai impossibili da recuperare, dobbiamo farcene una ragione.

Certo, sarà difficile rivivere emozioni come quelle vissute in passato.




Come dimenticare quella squadra, e quelle emozioni? Come dimenticare più ancora di questo match, quello precedente, la semifinale ocn la fortissima Australia, che vincemmo contro il pronostico, grazie a Adriano Panatta, a Corrado Barazzutti, a Paolo Bertolucci e a Nicola Pietrangeli che li guidava?
Ma non parlo solo di emozioni legate ad una vittoria, o da essa causate.
Era tutto il complesso, tutta la struttura, tutto il motore che metteva in moto la Davis, questo viaggio a tappe, la preparazione, i riti connessi con ogni singolo incontro, ad avere un fascino che poi, giocoforza, culminava in emozioni fortissime, indipendenti dal risultato raggiunto.




1990 - Canè Wilander. Neurocanè. Uno dei più incredibili tennisti che sia mai esistito. A mio avviso... non poteva che essere italiano.

Eh sì, preistoria.
Preistoria del tennis e preistoria dello sport.
Ma noi vecchie cariatidi ci siamo legati e difficilmente, oggi, riusciamo a provare emozioni altrettanto forti, ad entusiasmarci, davanti all'asettico individualismo del nuovo tennis.
E' un po' come chiedere a chi è cresciuto coi Pink Floyd di entusiasmarsi per Noemi. E non ne faccio un discorso di singole persone, o di singoli artisti. Era la musica che era diversa. Era il modo di fruirla che era totalmente un altro. E lo stesso vale per quel tennis, quello "da Coppa Davis", e questo tennis.

Ma tant'è, come dicevo, grazie alla bronchite, grazie alla pessima ricezione televisiva di Viterbo (che mi ha costretto all'acquisto di un decoder satellitare) e grazie a SuperTennis, ho avuto la possibilità di rituffarmi per un attimo dentro quell'atmosfera magica ed incantata.
Complice è stato sicuramente l'avversario dell'Italia per questo turno di qualificazioni alle finali spagnole: l'India.
Il giorno prima dell'inizio del match, su Supertennis hanno fatto vedere le immagini dell'ultimo precedente tra la nostra squadra e quella indiana.
Era il 1985, e in quell'occasione perdemmo.
Vedendo quelle immagini ho sorriso. Guardando il contesto in cui fu giocato quell'incontro, si poteva pensare che fossero passati 70 anni, non 34. Uno stadio con le panchine di legno al posto delle gradinate, tutto molto precario, molto manuale, molto "umano".
Le immagini del match odierno, poi, mi hanno veramente colpito.
Sì perché... lì, in India, per lo meno dove si è giocato ieri e oggi, il tempo non sembra essere passato! Le stesse strutture, la stessa approssimazione, i clacson e i rumori del traffico perfettamente udibili, la stessa "imperfetta umanità" ormai antica e fuori moda.

Abbiamo vinto.
Vinto facilmente.
E a novembre, in Spagna, in una settimana vedremo di farci onore in questa kermesse in cui è stata trasformata la Coppa Davis. Chissà che da quella roulette russa di incontri non riesca ad uscire qualche sorpresa?
E magari, chissà, qualche emozione vera anche per noi vecchie cariatidi dello sport?